Le elezioni non sempre piacciono all’Occidente

Erano attesi per giovedì 10 maggio i risultati definitivi delle elezioni parlamentari tenutesi lunedì 7 in tutta la Siria. Purtroppo il paese troneggia nelle prime pagine on-line della stampa internazionale per l’ennesimo sanguinoso attentato, che ha colpito nelle prime ore del mattino la capitale Damasco. La tornata elettorale si chiude con il terrore, esattamente come era stata inaugurata.

Alcuni minuti prima delle 07.00 di giovedì 10 due esplosioni hanno avuto luogo ad al-Qazzaz, sobborgo meridionale di Damasco, provocando morti e feriti. Il quartiere, informa la Bbc, ospita una sede dell’intelligence militare fedele al regime. La televisione di stato denuncia la matrice terroristica dell’attacco. L’ultimo attentato nella capitale risale al 27 aprile.

La vigilia elettorale era trascorsa tra l’indifferenza di stampa e politica Occidentale, attenta a denunciare con minuzia le violenze che il piano di Kofi Annan e la risoluzione Onu 2043 del 21 aprile non hanno interrotto. Le opposizioni da parte loro si sono per lo più allineate alla volontà del Syrian National Council (Snc), impegnandosi a boicottare il voto.

Senza dialogo continuano le violenze: mercoledì 2 maggio un corteo di studenti universitari ad Aleppo è stato soppresso dalle Forze di Sicurezza e dai militari: le Commissioni di Coordinamento Locale (Lcc) parlano di 5 studenti uccisi, mentre la Bbc riporta più di 200 manifestanti arrestati. L’Università di Aleppo ha sospeso tutte le attività didattiche per l’anno accademico in corso.

La risposta dei ribelli si fa attendere circa 72 ore: sabato 5 maggio il quartiere Tall al-Zarazeer ad Aleppo è teatro dell’esplosione di un auto lavaggio. Attentato rivendicato dal Free Syrian Army (Fsa): “Abbiamo piazzato una bomba dentro un’auto”, afferma Ali al-Halabi, attivista del Fsa. L’autolavaggio in questione era di proprietà e frequentato da sostenitori del regime.

A urne chiuse, Annan incontra il Consiglio di Sicurezza. Il piano in sei punti non è stato rispettato, ma non vi erano le pre condizioni necessarie. Il tessuto sociale del paese è sfilacciato, la realtà di Aleppo mostra un paese spaccato, con vendette tipiche di una guerra civile. Le parole di Annan continuano ostinatamente a sperare nell’impossibile: “il piano di pace”, ha affermato l’ex segretario generale dell’Onu “è l’ultima possibilità per il paese di scongiurare la guerra civile”. Torture, arresti di massa e violazioni dei diritti umani si stanno “intensificando” ed il presidente Bashar al-Assad è additato come “primo responsabile”. ”Vi è la preoccupazione che il paese possa precipitare nella guerra civile, e le implicazioni sono allarmanti. Non possiamo permettere che accada”, conclude Annan.

Le elezioni rappresentavano un’opportunità per il paese, ma disinteresse e silenzio ne hanno definito la cornice, decorata dalla denuncia di autoreferenzialità. Eppure nel paese vi sono da circa un mese ispettori non armati dell’Onu (al momento delle elezioni ne erano presenti circa 70, mentre l’attesa è di 300 osservatori complessivi entro la fine di maggio), che avrebbero potuto svolgere un ruolo non marginale a latere delle sedi elettorali.

Un totale di 7.195 candidati (di cui 710 donne) per 250 poltrone in parlamento: questa la posta in gioco per le prime elezioni multipartitiche nella storia recente del paese. Il Snc ha boicottato le elezioni ribadendo falsa l’apertura a nuove forze politiche: i nuovi gruppi partitici (nove in totale), affermano dal Snc, sono costrutti artificiosi del governo, con candidati sconosciuti. Secondo l’Onu le elezioni non rientrano nella logica di un dialogo politico globale ed inclusivo che permetta un futuro democratico per il paese.

A urne chiuse, mercoledì 9 maggio, un ordigno è stato fatto esplodere vicino alla città di Deraa, pochi istanti dopo il passaggio del convoglio Onu, ove sedeva anche il leader della missione, Robert Mood.

Avviata il 15 aprile dopo l’approvazione all’unanimità del Consiglio di Sicurezza della risoluzione 2042, la missione Onu ha seguito di poco il piano in sei punti di Annan e della Lega Araba. Il 21 aprile è stata votata la risoluzione 2043: il Consiglio di Sicurezza “stabilisce, per un periodo iniziale di 90 giorni, una missione di supervisione, denominata Unsmis, inerente la rapida disposizione di circa 300 osservatori non armati, supportati da componenti civili e sistemi di trasporto aereo, finalizzati a monitorare la riduzione degli scontri a fuoco in tutte le loro forme e da parte di tutte le forze in campo”.

A fine aprile la nave Lutfullah II registrata in Sierra Leone è stata fermata nel porto libanese di Salaata, nei pressi di Beirut: trasportava svariati container con armi da fuoco leggere e pesanti destinate ai ribelli siriani. Partita dalla Libia, la Lutfullah II si è fermata ad Alessandria d’Egitto per ripartire alla volta di Tripoli (Libano settentrionale), snodo cruciale per i ribelli.

Da più parti leader di potenze occidentali e del Golfo hanno offerto supporto economico ai ribelli. Non ci sarebbe da stupirsi di cargo colmi di armamenti, se non fosse per il piano Annan e per risoluzioni Onu che auspicano una riduzione degli scontri. Al momento attuale manca anche una parvenza di coerenza tra i paesi artefici dell’attacco ad Assad. Ma strategia e posizioni non ricalcano il contenuto delle risoluzioni 2042 e 2043, insistendo al contrario nel destabilizzare Damasco fino ad autorizzare un intervento armato per scongiurare il degenerare dello scontro civile. Ma la Siria non è la Libia, e le forze in gioco remano in direzioni non omogenee attorno a nodi cruciale dello scacchiere geopolitico.

Fonti: Bbc, Press TV, Al Manar, Al Jazeera, Sana

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Cercasi nuova Libia disperatamente

“Non credo che i nostri militari fermeranno gli scontri fino a quando non si placheranno le offensive dell’altra parte”. A parlare così è il capitano Avham al-Kurdi, del Free Syrian Army (Fsa). Appare chiaro che mancano le premesse per rispettare il piano per il cessate il fuoco di Kofi Annan. Sabato 14 aprile il Consiglio di Sicurezza ha varato la risoluzione 2042 ed il giorno seguente i primi osservatori disarmati dell’Onu sono sbarcati in Siria.

Il presidente Bashar al-Assad è intimato dall’Occidente, dai paesi arabi ad essi fedeli (leggi, paesi del Golfo) e dalle più quotate organizzazioni internazionali ad imporre al suo esercito ed alle Forze di Sicurezza di cessare il fuoco e porre fine a scontri e violenze nel paese. Assad è sovrano di un paese in cui è in corso un’offensiva armata di alcuni (non pochi) dissidenti, che minano la sovranità stessa di Assad e certamente l’uso esclusivo della forza. Il governo ha il diritto di impegnarsi per ripristinare lo stato di diritto e l’ordine all’interno dei suoi confini. Ma in questa sfida è lasciato solo.

Anzi, appare osteggiato. La Turchia ospita l’intelligence tanto del Fsa quanto del gruppo d’opposizione più quotato dell’opinione pubblica occidentale, il Syrian National Council (Snc). Arabia Saudita e Qatar finanziano o quantomeno smaniano di inviare armi e munizioni ai ribelli auspicando (meglio, invocando) la caduta del regime. Usa, Francia ed Inghilterra accusano Russia e Cina del veto alla precedente risoluzione del Consiglio di Sicurezza, additando i due paesi per favoreggiamento della repressione armata dei pacifici dissidenti. E tralasciamo per mancanza di informazioni concrete il ruolo giocato nella partita da Israele.

Il piano di Kofi Annan per il cessate il fuoco prevedeva la creazione delle precondizioni necessarie alla sua implementazione fino al 10 aprile, giorno entro il quale i militari di Damasco dovevano abbandonare ogni centro abitato e ritirare armi pesanti e veicoli armati. Nelle successive 48 ore il cessate il fuoco doveva concretizzarsi e le opposizioni avevano il vincolo di attenersi al volere del governo. Alle 6.00 di giovedì 12 aprile qualsiasi forma di violenza sarebbe dovuta cessare da ogni parte. Successivamente le parti avrebbero iniziato dialoghi per una soluzione politica.

“Il mondo sta guardando con occhi scettici le tante promesse fatte dal governo siriano non mantenute”, ha affermato da Ginevra il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon. Che giovedì 19 aprile sentenzia la violazione degli accordi stipulati tra Onu e Damasco.

Le violenze sono continuate durante tutto il periodo da ambo le parti. Il 12 aprile la Tv di stato siriana ha denunciato l’esplosione di una bomba anti-carro ad Aleppo nel pomeriggio. Accuse analoghe si inseguono da mesi senza tregua da ambo le parti.

Alla luce dei fatti l’Onu ha accelerato i tempi per una nuova risoluzione, confezionata ed inviata ai rispettivi governi per il nullaosta venerdì 13. Lo stesso giorno le opposizioni accusano Damasco di aver aperto il fuoco su un corteo di manifestanti.

A dispetto dei timori, e dopo alcuni ritocchi imposti dal delegato russo, sabato 14 la risoluzione viene votata all’unanimità. Approderanno in Siria più di 30 osservatori disarmati (il primo team di otto è al lavoro già da domenica 15 agli ordini di un colonnello marocchino) che riferiranno alle Nazioni Uniti la situazione nel paese: sulla base del resoconto il Consiglio di Sicurezza potrà incrementare il numero degli osservatori fino a circa 250.

“Al primo team della missione deve essere permesso di visitare luoghi come Homs oggi stesso. Il governo deve fermare i bombardamenti e ritirarsi. E può farlo oggi stesso”, ha affermato l’ambasciatrice statunitense presso l’Onu Susan Rice. “Il Consiglio di Sicurezza può autorizzare la missione nella sua completezza domani, ma senza poter visitare i luoghi cruciali degli scontri … essa non sarà efficace”.

Cosa accadrebbe se l’esercito siriano si ritirasse oggi stesso la Rice non azzarda a spiegarlo, come d’altronde tralascia qualsiasi commento sulla legittimità delle forze armate parallele ed antagoniste al regime, sui canali di reperibilità (o se preferiamo di fornitura segreta) di armi, nonché su abusi e violenze ai danni dei civili, aspetti curati invece da organizzazioni internazionali per i diritti umani come, tra gli altri, Human Rights Watch (Hrw).

Tutelare governo, opposizioni e civili per preparare le ormai vicine elezioni (in calendario a maggio) non passa neanche per sbaglio dai microfoni dell’Onu, della Lega Araba o degli autoproclamati “Amici della Siria”. Molto meglio destabilizzare il prima possibile la situazione per eliminare l’amico canaglia.

Il portavoce siriano all’Onu afferma di gradire esclusivamente osservatori del Brics, e la richiesta appare furba: Assad non ha mai riconosciuto Washington come interlocutore valido (e alla luce delle esperienze iraquena, afghana e libica a ragione), peraltro viziato in partenza dalla posizione più volte smascherata all’Onu di scudo israeliano. Proporre Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa appare un giusto quanto necessario aggiornamento dello scacchiere politico.

Hassan Nasrallah, leader Hezbollah, ha rilasciato un’intervista a Julian Assange, fondatore di Wikileaks, in cui si propone come intermediario nella crisi siriana. Probabilmente sarebbe di parte né più né meno dei leader Occidentali e del Golfo.

“Il Bahrain non è la Siria”, ha affermato due giorni prima del Gran Premio di Formula 1 il primo ministro britannico David Cameron, mentre da più parti giungono denunce contro il governo di Manama per gravi violazioni dei diritti umani. “In Bahrain vi è un processo di riforme in corso”. O una cieca amicizia basata sui petroldollari.

Fonti: The National, Bbc, Press TV, Hrw

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Posizioni prese: la partita ha inizio

La Lega Araba si è ritrovata giovedì 29 marzo a Baghdad, riportando un’assemblea di importanza internazionale nella capitale iraquena, dopo più di vent’anni. Solo otto dei 22 membri della Lega vi hanno preso parte: Iraq, Sudan, Tunisia, Palestina, Comore, Libia, Libano e Kuwait. Assente la Siria, interdetta dalla Lega, e, con l’esclusione del Kuwait, tutti i paesi del Golfo. Presente il leader dell’Onu Ban Ki-moon, in qualità di rappresentante del piano Annan promosso da Onu e, appunto, Lega Araba.

Perchè tanti assenti? Assad dal canto suo è sospeso dalla Lega, e dunque non ha diritto a partecipare. Ma i paesi del Golfo? La Bbc ipotizza un tentativo di boicottare il vertice dovuto alle intese tra Baghdad e Teheran. Qatar e Arabia Saudita hanno inviato degli emissari: i due paesi da mesi promuovono un intervento armato in Siria e il rifornimento di armi a qualsiasi ribelle, piano non accettato dalla Lega, che attraverso il lavoro di Kofi Annan e dell’Onu ha proposto un piano pacifico (cioè, senza armi e finanziamenti pericolosi).

Martedì 27 marzo, il presidente Bashar al-Assad ha accettato i sei punti del piano scritto da Kofi Annan: sviluppo politico che raccoglie aspirazioni e voci del popolo siriano; stop a tutti gli scontri armati sotto la supervisione Onu; garantire l’accesso ai soccorsi umanitari, unitamente a due ore di stop umanitario; rilascio dei detenuti arbitrari; garantire la libera circolazione dei giornalisti per il paese; garantire la libertà di associazione ed il diritto a manifestare.

Scontri e violenze però non sono cessati. Assad sostiene la necessità che anche i “gruppi terroristi” smettano gli scontri armati, altrimenti l’esercito è impossibilitato a ritirarsi. Questo il contenuto del messaggio inviato da Assad ai leader del Brics, riuniti a Delhi lo stesso 29 marzo. La linea delle cinque potenze (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) è la stessa portata avanti da Cina e Russia in seno all’Onu: l’unica via per la fine degli scontri è non violenta.

Di idee ben diverse altri leader mondiali. Se poco si crede ad un dittatore come Assad, lasciamo spazio alle parole di William Hague, segretario britannico per gli affari esteri: supporteremo i ribelli “con accordi in merito a pratiche non letali tanto all’interno quanto all’esterno del paese […] così da permettere a loro stessi di sviluppare una credibile alternativa ad Assad”, ha affermato Hague il 29 marzo, garantendo un finanziamento extra di mezzo milione di sterline ai gruppi d’opposizione. Il 13 gennaio il primo ministro britannico David Cameron si era incontrato con re Abdullah, per discutere della crisi siriana: l’incontro è chiave di volta per comprendere la politica (neocolonialista) saudita e britannica. Londra è la prima a rispondere all’appello del principe saudita Saud al-Faisal per offrire supporto pratico ai ribelli. In Bahrein, all’indomani delle rivolte, Londra stanziò un’ammontare pari ad un milione di sterline in armi ed equipaggiamento militare.

Le affermazioni di Hague precedono di poco il vertice “Amici della Siria” organizzato ad Istanbul domenica 1 aprile. 71 paesi hanno partecipato all’incontro, disertato da Russia, Cina e da Kofi Annan. Ne riassume le conclusioni il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton: “Invitiamo Kofi Annan a stabilire una timetable per l’implementazione del piano in sei punti […] Assad deve dimettersi ed il popolo siriano deve essere libero di decidere il proprio futuro”. L’assemblea riconosce come interlocutore unico e rappresentante di tutti i siriani il Syrian National Council (Snc), proprio mentre rappresentanti di altri gruppi d’opposizione non lo riconoscono e ne prendono le distanze. E gli Usa minacciano di seguire Londra.

“Siamo difronte ad un’offensiva regionale ed internazionale finalizzata a trovare vie per uccidere ancor più siriani e distruggere società e stato, indebolire il paese e trasformalo in un ennesimo stato dipendente da Washington, Parigi, Londra e Tel Aviv”, è quanto scrive il quotidiano di stato siriano Al-Baath riferendosi al meeting di Istanbul.

L’Snc rilascia dichiarazioni a margine del vertice inerenti promesse di ingenti aiuti da parte di Arabia Saudita, Qatar ed altri paesi del Golfo: ”Non hanno ancora creato il fondo, ma provvederanno a breve e ci hanno comunicato una cifra pari a circa 200 milioni di dollari. Noi abbiamo chiesto un miliardo”, afferma Haitham Al Maleh, direttore dell’Haitham Maleh Foundation for the Defense of Syrian Human Rights Defenders e importante voce dell’opposizione. Burhan Ghalioun, leader del Snc, afferma invece che “l’Snc si prenderà carico del pagamento di salari fissi a tutti gli ufficiali, soldati ed altri membri del Free Syrian Army (Fsa)”. Nemmeno un mese fa il Fsa aveva respinto la gestione politica (del Snc) dell’esercito ribelle.

“Alla luce della nostra esperienza in Iraq”, ha affermato il primo ministro iraqueno Nouri al-Maliki durante il vertice della Lega a Baghdad “l’opzione di armare una parte dei contendenti trascinerà ad un conflitto regionale ed internazionale in Siria”.

La sera di lunedì 2 aprile la Siria accetta la timeline di Annan, che fissa al 10 aprile il termine ultimo per iniziare ad attuare il piano in sei punti. Nell’attesa delle elezioni parlamentari del prossimo 7 maggio, i sei punti di Annan appaiono la via più pacifica per preparare la campagna elettorale e cercare con strumenti politici (e non militari) una svolta democratica. Gli “Amici della Siria” sembrano privilegiare una strada già battuta, riconoscendo interlocutori preferenziali e muovendo armi e capitali.

Fonti: PressTV, Bbc, Al-Manar, The National, The Economist

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Primavera siriana, anno primo

Due autobombe cercano di destabilizzare la situazione nella capitale Damasco, ed un terzo attentato segue la stessa strada ad Aleppo, seconda città del paese. Nessuna rivendicazione, denunce a tutto tondo contro attentati ed attentatori. L’orgoglio di un popolo scende nelle piazze ad un anno dall’inizio degli scontri e il presidente indice (libere) elezioni.

Sabato 17 marzo Damasco è colpita da due attentati che feriscono un centinaio circa di persone (tra forze di polizia e cittadini) e ne uccidono almeno altre 27. Il giorno seguente è la volta di Aleppo: un’autobomba esplode in una zona residenziale non lontano da uffici delle Forze di Sicurezza. Almeno tre le vittime e 25 i feriti. La dislocazione geografica degli episodi riconduce il mandate alle forze d’opposizione, che però tacciono e non rivendicano. Sarà perché fino ad oggi poco hanno riconosciuto dei crimini commessi dal Free Syrian Army (Fsa) e dalle svariate altre cellule ribelli (poco più ha ammesso la compagine di Assad per le violenze delle Forze di Sicurezza), sarà perché dall’Europa all’Iran passando per Onu e Lega Araba si fa a gara nel denunciare gli atti terroristici.

Sorprende che sia Human Rights Watch, autorevole realtà per la difesa dei diritti umani, a spendere parole di accusa e denuncia nei riguardi dell’opposizione ed ai metodi brutali e sanguinari usati dai ribelli. L’organizzazione informa dalle proprie pagine on-line di aver inviato una lettera pubblica al Syrian National Council (Snc) e agli altri gruppi d’opposizione. Precisando che mutilazioni ed altri orrori da parte del regime sono dati “documentati”, il direttore di Hrw per il medioriente, Sarah Leah Whitson, precisa che “tattiche brutali messe a punto dal governo non possono giustificare abusi da parte dei gruppi d’opposizione armati. I leader d’opposizione devono chiarire ai propri sostenitori che loro non torturano, non rapiscono né giustiziano in nessuna circostanza”.

La realtà però è ben distinta e non deve sorprendere: in uno scontro aperto in cui anche chi si ribella dal basso è armato, incitato e supportato logisticamente da forze d’intelligence ben addestrate, sarebbe impensabile un’offensiva non violenta e pacifica.

In Consiglio di Sicurezza continuano i lavori per un’ennesima bozza di risoluzione, mentre Sergei Lavrov, ministro degli esteri russo, si affanna da mesi in colloqui su e giù per l’occidente argomentando le ragioni russe e impegnandosi al meglio nell’arte diplomatica per preservare sia i rapporti con la Siria che le relazioni con Europa e Usa. Il tutto in attesa delle evoluzioni della missione di Kofi Annan, inviato speciale di Onu e Lega Araba.

Giovedì 15 marzo è stata indetta da attivisti siriani fedeli al governo una “Global March for Syria”, organizzata in diverse province del paese. Le immagini riportate da Al-Manar, emittente libanese di Hezbollah, mostrano piazze gremite di persone con la bandiera nazionale siriana. Martedì 13 il presidente Assad, prestando fede a quanto previsto dalla nuova Costituzione entrata in vigore lo scorso 27 febbraio, emana un decreto legge che indice elezioni parlamentari per il prossimo 7 maggio.

Ha ragione Matteuzzi a definire sulle pagine del Manifesto “pirla” chi si azzarda anche solo a pensare che l’impegno russo per evitare un intervento militare sia dovuto al rispetto per la democrazia e la non violenza. Detto questo, Matteuzzi ammette che la posizione di Mosca è la più lucida e corretta: come dimostrato dallo stesso Hrw (seppur con grave ed imperdonabile ritardo a conflitto terminato), l’intervento in Libia ha rovesciato un dittatore lasciando sul campo morte, gruppi armati, assoggettando un paese ostinatamente avverso all’Occidente in chiave neocoloniale. Alla ripetizione di questo scenario la Russia preferisce temporeggiare, lasciare l’iniziativa al popolo ed evitare un intervento che sicuramente coinvolgerebbe altri (pericolosi) attori, Iran e Israele.

Da un punto di vista geopolitico, Nicola Lofoco, freelance, avanza un’analisi lucida intervistando il giornalista Bassam Saleh, corrispondente dell’agenzia Al-Nahar news. Il governo siriano sembra resistere ad un anno di attacchi, la sedia di Assad non vacilla. La disinformazione che arriva in Occidente è creata ad arte dalle petromonarchie saudite e dalle loro emittenti (Al-Jazeera in primis). Al momento attuale finanche la Clinton mette in discussione un intervento militare, impaurita dalla possibilità di distribuire armi in mani poco affidabili. La stessa Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), si dice preoccupata per le conseguenze economiche di uno shock petrolifero indotto da un’invasione in chiave anti iraniana della Siria.

L’invito rivolto a tutte le etorogenee forze d’opposizione è partecipare alla prossima tornata elettorale, possibilmente supervisionata da ispettori internazionali. Il voto non porta sempre diritti e democrazia, si basa su regole del gioco scritte da chi detiene il potere che le vizia, quanto più è autoritario, a proprio favore. Nella situazione attuale le elezioni appaiono però una via d’uscita ed un supporto a chi, come la Russia, non gradisce un intervento umanitario/militare. Le opposizioni argomentino a dovere la propria posizione.

Fonti. Hrw, Bbc, Al-Manar, Press TV

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Wikileaks rischiara le tenebre

L’ex segretario generale della Nazioni Unite Kofi Annan, ha concluso due giorni di colloqui con la leadership siriana. All’indomani della sua partenza, i ministri degli esteri degli stati chiave del Consiglio di Sicurezza si ritrovano a New York per dibattere nuovamente sulla Primavera Siriana. Intanto Wikileaks getta un po’ di luce sul conflitto, diffondendo materiale top-secret.

In qualità di inviato speciale della Lega Araba e dell’Onu, Kofi Annan è sbarcato in Siria sabato 10 marzo per incontrare il presidente Bashar al-Assad e gli altri leader di stato. “Nessun dialogo né alcuna attività politica sono attualizzabili fino a quando ci sono gruppi armati di terroristi al lavoro nel paese che diffondono caos e instabilità”, ha affermato Assad. Annan riferisce ai media il cuore della sua missione, da più parti definita ‘impossible’: una serie di proposte per porre fine alle violenze.

“La nostra discussione si è incentrata sul nocciolo del processo: stop immediato di violenze e assassini, accesso garantito alle agenzie umanitarie ed avvio del dialogo politico”, ha affermato Kofi Annan, aggiungendo che i colloqui si sono svolti in un’atmosfera accogliente e desiderosa di pace. Domenica 11 marzo Annan ha incontrato il Gran Mufti siriano, Sheikh Ahmad Badreddin Hassoun, dibattendo sugli stessi temi. Nessun membro delle opposizione ha, a quanto riferiscono i media, accettato di incontrare il diplomatico ghanese.

Durante la visita di Annan, a Il Cairo la Lega Araba si è ritrovata assieme al ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, in un incontro dal sapore preparatore dei lavori che lunedì 12 riprenderanno i ministri degli esteri dei paesi membri del Consiglio di Sicurezza Onu. Lavrov ha ribadito la posizione russa, contraria a interferenze estere (siano esse arabe, Nato o Onu) e votata a supportare un regime contro cui si stanno aizzando gruppi (organizzati) di terroristi.

La settimana precedente, Wikileaks ha pubblicato e-mails di manager della Stratfor Intelligence, organizzazione di intelligence statunitense gestita da George Friedman, che rivelano la presenza di miliziani Nato tra le file dei ribelli anti-Assad. Notizia importante per l’opinione pubblica Occidentale, in quanto sembrerebbe supportare la teoria di Assad, Russia e Cina.

Il quadro geopolitico della crisi appare sempre intricato, anche se si chiariscono i ruoli delle singole pedine in gioco. I paesi del golfo, riuniti nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) – Eau, Arabia Saudita, Oman, Qatar, Bahrain e Kuwait – sono i promotori delle mozioni della Lega Araba e gli interlocutori arabi di primaria importanza nei colloqui internazionali. I leader sono i vertici di Arabia Saudita e Qatar: loro obiettivo è un intervento militare che spodesti Assad e stabilisca una Siria sunnita con una leadership monarchica di stampo saudita scorporata della spinta secolare soffiata dai recenti moti rivoluzionari. Gli altri paesi arabi sembrano avvallare timidamente e senza contraddittorio la politica del Gcc, dimostrandosi poco incisivi e preoccupati più che altro delle proprie questioni interne. Esempio lampante è l’Egitto, avverso ad Assad ma poco attento ai traffici ed agli spostamenti militari attraverso Suez.

L’Occidente preme per un cambio di regime in Siria, già “Stato Canaglia” ai tempi della precedente amministrazione Bush. Cambiare natura allo stato alawita vorrebbe dire togliere un importante alleato dell’Iran, ed in questo Gcc e Casa Bianca si intendono, evitando però – e qui gli Usa sono cauti – di armare e finanziare cellule alquaediste e salafite antioccidentali. L’Europa si muove come rimorchio degli Usa, e l’anno delle elezioni difficilmente sarà l’anno di una nuova esplicita guerra (come ha chiarito Barack Obama all’indomani dell’incontro con Benjamin Netanyahu), e per questo il Gcc cerca di alzare la voce ed invocare una missione militare araba che acceleri i lenti tempi occidentali.

La repubblica teocratica iraniana è alle prese con scelte importanti, tanto interne quanto di politica internazionale: la destabilizzazione della Siria mette a repentaglio l’avamposto per eccellenza nel mondo arabo e incrina la rete di relazioni con Hamas. La partita palestinese è ancora lontana da un epilogo ed anche Israele ne è consapevole.

Fonti: Bbc, Al Manar, Medarabnews

*Articolo scritto per Osservatorio Iraq

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Compagno Napolitano

Trovo curioso che un Presidente della Repubblica dichiari di non aver intenzione di incontrare dei sindaci. La democrazia (potere del popolo) si struttura attraverso l’elezione di delegati per l’impossibilità (e la non predisposizione naturale) di organizzare per ogni questione dibattiti pubblici nel vero senso della parola, cioè in una grande aula che contenga tutti i cittadini (non solo coloro che vogliano parteciparvi, ma tutti, trattandosi di diritto e dovere, onere e onore). Dunque si eleggono dei rappresentanti, così da passare da un’ipotetica grande sala dalla capienza media di 30 milioni di pesone (per dibattiti di qualche lustro) a qualcosa di più agevole ed efficiente.

Nel momento in cui un Presidente della Repubblica dichiara di non voler incontrare non un sindaco, ma tutti i sindaci di una pezzo del paese la questione democratica stride. Perchè non ne ha intenzione? Ha la facoltà di non partecipare ad alcun incontro, ma nel momento in cui dichiara di non voler incontrare i delegati del popolo residente in un delimitato pezzetto di territorio, allora diviene labile l’interpretazione di sovranità popolare. A meno dell’ammissione dell’idea di dittatura della maggioranza, anche territorialmente intesa.

Il Presidente della Repubblica esclude dalla sua agenda una fetta di territorio. Lo scenario sembra proprio di paesi con forti moti secessionistici o sacche di minoranze ribelli represse che minano il potere costituito. Pensare che si tratta di un vecchio militante del più forte Partito Comunista d’occidente. Gli oligarchi badano ai proprio interessi di parte, da intendesi in primis come lobby di potere e solo secondariamente come classe (ceto) o partito politico.

“Le contestazioni violente non sono mai accettabili”, ha dichiarato Bagnasco. Mi spieghi, illustre padre, un tempo si può usurpare mezzo mondo imponendo la propria religione e poi nessuno ha il diritto di fiatare? O il cattolicesimo si è diffuso con vergini in preghiera e ramoscelli d’ulivo nel seno? Mi scusi, dimeticavo che Wojtyla tre secoli dopo si è scusato. Ma con chi, se interi popoli erano stati sterminati? Con i figlio dei figli di chi colonizzò, lapsus, evangelizzò quelle terre? Evitiamo piuttosto altri Vajont.

Traggo spunto dal regista Moore. Proviamo a far scavare per qualche mese dai figli dei politici una montagna piena di materiali altamente nocivi. Così poi magari si iscrivono tutti alla Cei.

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Syrian Free Army senza armi

Dopo l’incontro a Tunisi dei paesi “amici della Siria” si è assistito ad un improvviso stop degli scontri a Baba Amr, in una Homs innevata. Il referendum sulla nuova Costituzione indetto dal governo e votato dal popolo domenica 26 febbraio non ha interessato i media internazionali. E mentre il premio Nobel per la Pace Obama incontra il primo ministro israeliano Netanyahu, negli Usa c’è chi parla di attacco aereo.

Venerdì 23 febbraio il gruppo di paesi “amici della Siria” si è incontrato a Tunisi. Nulla di nuovo è emerso dal meeting, viziato dall’incapacità degli organizzatori di coinvolgere Cina e Russia. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Turchia e diversi paesi arabi hanno ribadito concetti largamente discussi in sedi diverse, senza giungere a conclusioni innovative. I partecipanti promettono nuovi incontri.

Domenica 26 febbraio il popolo siriano è stato chiamato dal governo ad esprimersi con voto referendario sulla nuova Costituzione. Realizzata in dieci mesi da una commissione di 29 giuristi voluta dal presidente Assad, la Costituzione, stando ai dati del governo, è stata votata dal 57,4 % (8 milioni 376 mila 447 persone) dei cittadini recatisi alle urne (89,4%). Peccato fossero assenti ispettori internazionali dell’Onu. Con un decreto legge, il nuovo testo è stato implementato con decorrenza 27 febbraio 2012.

L’evento merita una riflessione: condivido non prestar fede alle promesse dei politici, ma se di politica si tratta allora appare curiosa la noncuranza con cui è stata accolta dalla stampa internazionale la nuova Costituzione. L’opposizione afferma che alcuni cavilli insiti nel vecchio testo opposti ad un’apertura verso democrazia, diritti e multipartitismo non siano stati omessi o rivisti nella nuova stesura, inficiando così la natura multipolare del testo. Vero è al contempo che alcuni punti chiave criticati in passato da più parti appaiono riscritti con diversi oneri e onori, come per esempio gli articoli del titolo “La Suprema Corte Costituzionale”, da 139 a 148 nella precedente versione (da 140 a 149 nella nuova).

Ad ogni modo il referendum aveva tutta l’aria di essere un copione già scritto e le diverse parti hanno recitato come previsto. A Damasco, capitale sede del governo, l’affluenza registrata è stata alta, mentre ad Homs, centro degli scontri, niente fila alle urne: difficile raggiungerle sotto gli incessanti scontri armati. Ma certamente i più hanno accolto l’appello del Syrian National Congress (Snc) al boicottaggio. Stando ai dati rilasciati, apparentemente fin troppo ottimisti perchè superiori alla partecipazione elettorale registrata in paesi che esigono l’export forzato del proprio modello democratico, sembrerebbe una sconfitta per il Snc più che una vittoria per Assad. Ma di questo, stando alla carta stampata, è meglio non parlare.

Da inizio marzo i ribelli hanno allentato la difesa di Baba Amr, centro nevralgico della resistenza ad Homs. Le notizie riportate dalla Bbc parlano di un vero e proprio ritiro strategico del Syrian Free Army (Sfa), esercito ribelle capeggiato dal colonnello Riyad al-Asaad. In un comunicato pubblicato su internet, la brigata Baba Amr del Fsa afferma che i combattenti non disponevano di sufficiente artiglieria per difendere i cittadini. Da alcuni giorni Croce e Mezza Luna Rossa sono in attesa del nulla osta per entrare nel quartiere fantasma e rifornire di cibo e di altri beni di prima necessità i civili reduci. L’attesa è giustificata dalla presenza di ordigni inesplosi e mine che metterebbero a repentaglio i volontari. Il governo informa che i militari sono al lavoro per mettere in sicurezza il quartiere.

Poco dopo il ritiro, il leader del Syrian National Council (Snc), Burhan Ghalioun, ha comunicato la creazione di un dipartimento militare per coordinare i gruppi armati ribelli, una sorta di ministero della difesa. La risposta del Fsa arriva forse inaspettata: non coopererà con nessun dipartimento, respingendo in pratica una gestione politica dell’esercito ribelle.

“Supportare da un punto di vista militare il Free Syrian Army e gli altri gruppi d’opposizione è necessario”, ha affermato il senatore repubblicano statunitense John McCain. “L’unica strada praticabile per farlo è l’ausilio di una forza aerea straniera. Dobbiamo ottenere il coinvolgimento attivo dei nostri partner arabi come Eau, Arabia Saudita, Giordania, Qatar, gli alleati dell’Ue, Nato e Turchia. Noi siamo gli unici a poterlo fare”.

Fonti: Bbc, Press TV, Al-Manar, Undp

Il testo della nuova Costituzione è visualizzabile qui.

*Articolo scritto per Osservatorio Iraq

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“Bisogna prevedere il passato, non il futuro”. [W.C.]

Mercoledì 22 febbraio, la giornalista statunitense del Sunday Times Marie Colvin ed il fotoreporter francese di Paris Match Remi Ochlik, sono rimasti vittima di una granata ad Homs. La Croce Rossa Internazionale ha richiesto a inizio settimana due ore di tregua giornaliere. Negli Usa si esplicita la volontà di armare i ribelli. Russia e Cina battono le vie diplomatiche occidentali per precisare le proprie ragioni, l’Assemblea Onu condanna Damasco per violazione dei diritti umani. Venerdì 23 si ritroverà a Tunisi il gruppo “Amici della Siria” e domenica 26 è atteso il referendum popolare sulla nuova Costituzione.

“Credeva profondamente che il lavoro di reporter potesse limare gli eccessi dei regimi brutali e informare la comunità internazionale”, ha dichiarato John Witherow, direttore del Sunday Times, appresa la notizia della morte di Marie Colvin. Assieme a Ochlik (vincitore del World Press Photo con una scatto libico), Colvin si trovava in un rifugio d’emergenza per i media nel quartiere Baba Amr ad Homs, centro degli scontri delle ultime settimane. Nella stessa circostanza è deceduto il cronista siriano Ramy al Sayed. Prima di loro erano caduti altri due reporter occidentali, Gilles Jacquier di France2 e lo statunitense Anthony Shadid.

In Occidente la notizia scatena cordoglio ed i dovuti omaggi per due giornalisti particolarmente capaci, e parallelamente sprona stampa, classe politica ed opinione pubblica ad incalzare ulteriormente il governo Assad, additato dai ribelli come responsabile dell’incidente.

L’impasse della crisi siriana, con decine di morti al giorno e un’incapacità al dialogo della diplomazia internazionale, non poteva serbare eventi diversi. Uno sviluppo in senso coercitivo della crisi da parte di qual si voglia attore in gioco porterà nuove vittime e nuovi cordogli.

I decessi ormai si contano a migliaia, tanto fra i civili, quanto tra ribelli e forze armate fedeli ad Assad. Homs è sotto assedio da alcune settimane e la Croce Rossa Internazionale (Icrc) ha dichiarato di cercare il dialogo per un cessate il fuoco umanitario. “Dovrebbero esserci almeno due ore di tregue ogni giorno per permettere allo staff di Icrc ed ai volontari della Mezza Luna Rossa Siriana di aver il tempo per consegnare gli aiuti ed evacuare feriti e malati”, ha dichiarato in un comunicato Jakob Kellenberger, presidente di Icrc.

Il senatore statunitense John McCain, leader dei repubblicani nella corsa al voto vinta da Obama, ha chiarito le intenzioni di Washington. “E’ giunto il momento di dare ai ribelli i mezzi per combattere e porre fine al massacro”, ha affermato dal Cairo. Non credo che McCain ambisca ad una risoluzione pacifica e democratica della crisi: il senatore ha in mente le prossime elezioni politiche, e le dichiarazioni mirano a mettere in difficoltà l’amministrazione Obama. Vero è che anche il Segretario di Stato Hillary Clinton ribadisce a sua volta il desiderio interventista.

Bloccato il Consiglio di Sicurezza, all’Onu non resta che votare ed approvare in Assembla un voto di condanna per violazione da parte del governo siriano dei diritti umani. Una votazione poco utile perché fine a se stessa e senza seguito ufficiale. Non sul veto usato da Pechino e Mosca, quanto sull’impossibilità per l’Assemblea delle Nazioni Unite a procedere con azioni concrete e legali: questo andrebbe dibattuto. L’Onu si riconferma ancorata ai vincitori del secondo conflitto mondiale ed incapace di intervenire sul globo con decisioni prese dall’Assemblea. Alla luce delle attuali tensioni mondiali lo scenario è quanto mai pericoloso.

Venerdì 24 febbraio si incontreranno a Tunisi gli “Amici della Siria”, occidentali e arabi, per ideare una piattaforma di azione. Da Mosca hanno comunicato di disertare l’incontro: “Il gruppo dei cosiddetti ‘amici della Siria’ persegue lo scopo di abbattere Assad e nient’altro”, ha dichiarato in un’intervista per Firstnews Evgenij Satanovskij, presidente dell’Istituto per il Vicino Oriente. “La Federazione Russa non vuole né rompere con gli amici occidentali, né benedire con la sua presenza tutto quello che vi succede, né contrapporsi in modo dimostrativo all’Occidente sul nulla. E’ una posizione adulta”.

Domenica 26 il popolo siriano sarà chiamato ad esprimersi in merito alla nuova Costituzione redatta dall’equipe creata la scorsa primavera da Assad. L’opposizione ha dichiarato di boicottare il referendum. Quanto mai diplomatica la Cina, impegnata in un tour tra Stati Uniti ed Europa per parlare di crisi economica e di Siria: “Ci auguriamo che il referendum e le prossime elezioni parlamentari possano passare in tranquillità”, ha affermato Zhai Jun, sottosegretario cinese agli esteri.

“Ciò che la Siria sta affrontando è fondamentalmente un tentativo di divisione e di intaccamento della sua posizione geopolitica e del ruolo storico che gioca nella regione”, ha affermato il presidente Bashar al-Assad. L’Iran muove navi militari sulle coste siriane e Israele incita i leaders repubblicani statunitensi Mitt Romney, Newt Gingrich e Ron Paul per promuove un’azione militare. Il re saudita Abdullah in contatto telefonico con il presidente russo Medvedev afferma l’inutilità di un dialogo con Damasco ed invita Mosca a confrontarsi con i leaders arabi prima di votare in Consiglio di Sicurezza.

Fonti: Press Tv, Bbc, Almanar

*Articolo scritto per Osservatorio Iraq

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L’invasione russa

Premesso che il veto in Consiglio di Sicurezza Onu rappresenta per chi ne gode un diritto, per quanto criticabile, anche quando usato da paesi beneficiari diversi dagli Stati Uniti, la natura del dibattito internazionale attorno alla questione siriana non va cercata negli ipotetici cavilli presenti nella risoluzione che scontentano Mosca, quanto piuttosto nella ratio alla base dell’apparente fermezza della posizione russa, nonché, dall’altro lato, della fretta e convinzione occidentale.

Negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito a guerre civili in svariati paesi del mondo che, nonostante ripetuti appelli e omicidi di massa, non riuscirono ad attirare l’attenzione dell’Onu. Mi limito a citare il recente golpe di Micheletti in Honduras ed il massacro tamil in Sri Lanka. Abbiamo inoltre assistito ad un progredire del dibattito di diritto internazionale attorno alla possibilità di interferenza negli affari interni ad uno stato.

Se il paese travagliato è marginale negli equilibri geopolitici globali, l’interesse dell’Onu (e, a monte, dei paesi che contano) è irrilevante. Al contrario, se vi è per esempio parecchio petrolio come in Iraq e Libia, allora la questione diventa vitale per la stabilità del pianeta.

L’ipocrisia siede nella negazione di detta realtà. In Iraq andava deposto un dittatore sanguinario (assassinato poi in modo altrettanto aberrante), la Libia doveva essere riportata all’ordine (e ne siamo ancor molto lontani) interrotto non dai ribelli, quanto da Gheddafi stesso (ma solo grazie alle urla dei ribelli l’opinione pubblica internazionale ha preso coscienza del regime dittatoriale libico).

La domanda da porsi è diretta conseguenza del ragionamento: un paese senza risorse come la Siria, con problemi idrici, scarse industrie, un’agricoltura allo stremo ed un’importanza limitata nei giochi economici mondiali, in ragione di quali strategie è arrivata ad interessare e catturare l’attenzione dei potenti?

La risposta è tutta strategia geopolitica. La Siria è uno stato canaglia (così definito dall’entourage di Bush figlio), amica dei nemici della ‘democrazia’ (Hamas, Hezbollah, Teheran), punto strategico nella disputa israelo-palestinese, e paese confinante con l’Iraq.

Se gli oppositori al regime di Damasco siano o meno finanziati, sostenuti o addirittura creati ad hoc dall’Occidente non possiamo saperlo, come neanche sappiamo se le notizie rilasciate da associazioni e gruppi impegnati per la difesa dei diritti umani che accusano Damasco di continui omicidi, stragi, torture e rapimenti di innocenti, siano o meno oggettive. Anche la posizione russa (affiancata da Pechino) non è di certo esclusivo frutto del desiderio di rispettare la non ingerenza, quanto piuttosto decisione ragionata finalizzata ad interessi economici nella regione.

La speranza che Mosca abbia fatto propria la volontà a non procedere ad un ulteriore escalation di violenza, destinata a portare ad un altra guerra targata Nato, è presente e viva. Con maggior probabilità il Cremlino vuole difendere i propri interessi nel paese (fra gli altri, uno sbocco sul Mediterraneo) e, punto non secondario, desidera evitare un’ennesima rapina di ricchezze e risorse ad opera del blocco Occidentale. E forse, in terza istanza, evitare un pericoloso conflitto internazionale che miri all’Iran.

“Non siamo estasiati da Assad, il quale ha fatto promesse senza mantenerle, ma siamo convinti che Assad e la società siriana possano dialogare e portare avanti un dibattito politico ancora non esaurito”, ha affermato ai microfoni della Bbc il vicepresidente del parlamento russo per gli affari esteri, Konstantin Kosachev.

L’Occidente sta proseguendo ad una diffamazione della Russia, incentrando l’attenzione sulla vendita di armi da parte di Mosca a Damasco. Tralasciando l’imbarazzante difesa russa, che sostiene il non utilizzo di dette armi per la (presunta) repressione dei ribelli, l’attacco di media e governi Occidentali è ancor più ipocrita, alla luce del grande traffico di armamenti, solo per citarne uno, tra Israele e i suoi amici. Ammessa la (discutibile) legalità del traffico di armi (e ricordando l’origine sovietica delle relazioni tra i due paesi), questo risulta lecito a prescindere dai contraenti (e lo stesso, nessuno me ne voglia, vale per gli armamenti atomici).

Emblema dell’attacco mediatico è un articolo firmato da Artyom Krechetnikov, pubblicato il 31 gennaio dalla Bbc. Mosca è accusata di aver appoggiato in passato “Slobodan Milosevic in Serbia, poi Saddam Hussein in Iraq, quindi più di recente Muammar Gaddafi in Libia, anche se questo supporto non si è mai trasformato in azioni pratiche, ed anche se il Cremlino non vuole minare seriamente le sue relazioni con Usa ed Europa”. Ma alla Casa Bianca non supportano Tel Aviv ed il massacro mediorientale? Gli Europei (Italia in primis) non facevano affari con Gheddafi? E chi supporta il regime antidemocratico saudita? Krechetnikov prosegue in un instabile confronto tra i dittatori citati e Putin, ipotizzando che sia il russo il prossimo a cadere.

Un articolo apparso il 30 gennaio sul quotidiano al-Quds al-Arabi, redatto dal giornalista palestinese Abd al-Bari Atwan, porta l’attenzione sulle smagliature che la crisi sta creando nel tessuto sociale siriano, per anni esempio di integrazione e convivenza. “La Siria scivola verso il baratro iracheno, dal momento che si sta logorando l’identità nazionale collettiva a favore di identità settarie, confessionali ed etniche”, scrive Atwan. “Così come l’uomo forte dell’Iraq, il primo ministro Nuri al-Maliki, afferma di essere in primo luogo sciita e in secondo luogo iracheno, anteponendo cioè l’appartenenza settaria a quella nazionale, in un prossimo futuro vedremo i siriani presentarsi allo stesso modo, anteponendo la fedeltà alla setta ed alla confessione religiosa alla fedeltà nei confronti della patria”.

Venerdì 3 febbraio l’Onu discuterà un’ennesima bozza di risoluzione, nella speranza di accontentare con modifiche di forma Mosca e procedere all’intervento in Siria: checche se ne dica, in caso di voto favorevole si procederà ad un’invasione militare. Nel mentre, le rivalità settarie fomentate dell’Occidente stanno trascinando la Siria verso uno sgretolamento della società ed una reale guerra civile.

Fonti: Bbc, al-Quds al-Arabi

* Articolo scritto per Osservatorio Iraq

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Per la Lega ci sarà un secondo mese

La Lega Araba decide di prolungare per un secondo mese la missione in territorio siriano. Non tutti accettano: il gruppo arabo si spezza. La Russia (a cui fa eco la Cina) garantisce ferma opposizione al progetto Occidentale di invasione e l’Inghilterra chiede intervento immediato.

Terminata la missione, i vertici della Lega Araba si sono ritrovati nel quartier generale del Cairo sabato 21 e domenica 22 per decidere i passi successivi. Alla (ennesima) richiesta di immediate dimissioni, il governo di Damasco ribadisce la determinazione a proseguire. La delibera di seguito votata dalla Lega ha suscitato malumori interni: l’Arabia Saudita ha preso le distanze rispetto alla decisione di prolungare al 23 febbraio la missione e ritirato la propria delegazione.

La posizione saudita è stata supportata martedì 24 dai paesi del Gulf Co-operation Council (Gcc), Kuwait, EAU, Qatar, Bahrain e Oman. Sei paesi si ritirano e con essi 55 osservatori. “Non vogliamo che i nostri osservatori siano falsi testimoni dei crimini commessi contro i civili”, dichiara il portavoce del Gcc ad al-Qabas, quotidiano del Kuwait.

“La Siria si trova in armonia con il piano e con il protocollo della Lega … che è frutto dell’esito della missione degli osservatori, ed è per questo che essi l’hanno ignorato”, ha affermato il ministro degli esteri siriano, Walid Al-Moallem, riferendosi ai paesi del Gcc. “Se i paesi del Golfo non vogliono che i propri osservatori vedano cosa sta accadendo in Siria, allora questo è il loro obiettivo”. Il ministro sostiene in oltre che la soluzione della crisi risiede nell’implementazione del programma di riforme varato dal presidente Assad.

Il primo mese di ‘osservazione’ non ha apparentemente prodotto alcun risultato di rilievo. L’arrivo della missione araba è stato accolto con una serie di attentati che hanno coinvolto anche Damasco, ma il numero (presunto) di vittime giornaliere non sembra essere variato. L’equipe di Assad ha accettato il prolungamento della missione rilevando una riduzione delle violenze in concomitanza alla presenza degli osservatori. L’opinione pubblica Occidentale rinnova l’appello al Consiglio di Sicurezza Onu per una risoluzione che avvalli l’intervento militare.

Il Primo Ministro britannico David Camaron (rientrato da un vertice con il leader saudita) denuncia uno scambio di armi tra Teheran e Damasco (su soffiata turca) e rinnova la determinazione a stringere la morsa delle sanzioni economiche. “Le persone devono sapere che Hezbollah è un’organizzazione che supporta ed appoggia questo infelice tiranno che sta eliminando una buona componente del proprio popolo”, ha affermato Camaron.

Al primo ministro inglese si affianca l’emiro del Qatar che, primo tra gli arabi, domenica 15 ha chiesto un intervento militare: il primo ministro e ministro della difesa Sheikk Hamad bin Jassim Al Thani ha affermato che la Siria non ha recepito il nuovo programma di pace e la Lega Araba informerà dei fatti il Consiglio di Sicurezza.

La posizione opposta è stata personificata dalla Russia, che per voce del ministro degli esteri Sergei Lavrov sottolinea la determinazione a porre veto in seno al Consiglio di Sicurezza a qualsiasi proposta di intervento armato. “Se qualcuno intende usare la forza a tutti i costi … noi possiamo opporci duramente per prevenire questo scenario”, ha affermato da Mosca.

Da Pechino riconoscono, in accordo con Damasco, un maggior controllo della situazione dal momento dell’arrivo della missione araba. “La posizione cinese richiama tutte le parti in Siria ad una piena cooperazione con la Lega Araba nello sforzo di mediazione. La Cina sostiene la soluzione della questione siriana nel quadro della Lega Araba”, ha affermato il portavoce del ministro degli esteri cinese, Liu Weimin.

Stando al presente quadro internazionale, diverse posizioni appaiono schierate a priori e a prescindere dall’evoluzione della crisi. E’ certo che l’opinione Occidentale è superficiale e non approfondisce la natura del movimento d’opposizione siriano, ridotto per lo più ad una principale componente in esilio, il Syrian National Council (Snc), integrato con il Free Syrian Army (Fsa), ed i Local Coordination Committees (Lcc) presenti invece sul territorio. Il Snc è riconosciuto da Francia e Libia, accettato da Usa, Uk ed Ue, e interloquisce con la Lega Araba. Il Fsa appare come l’unica destinazione possibile per i disertori dell’esercito siriano. Entrambi chiedono da mesi una No Fly Zone e l’intervento straniero.

La realtà è ben più articolata. Un articolo del mensile Syria Today “Anatomy of an opposition” si propone di rappresentare l’eterogeneità e le diverse articolazioni dell’opposizione al regime. Membri di spicco del Ncc, come Haytham Manna’a, definiscono il Snc un “Washington Club” e rigettano qualsiasi intervento estero. Il National Coordination Committee for Democratic Change non rinuncia al dialogo con il regime e auspica un progressivo trasferimento del potere. Al loro fianco il Building the Syrian State, il Popular Front for Change and Liberation (Pfcl), il National Democratic Initiative ed il National Initiative for Syria. “Ci sono migliaia di figure d’opposizione nella primavera siriana che non sono membri di alcun partito politico, movimento e gruppo pubblico”, afferma Louay Hussein, presidente e co-fondatore di Building the Syrian State.

Fonti: Bbc, Press TV, Almanar, Syria Today, Abc

* Articolo scritto per Osservatorio Iraq

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